L'abito tra il giusto e il gusto

Fiora Gandolfi

Qualsiasi forma di vestimenta, strascico e velo schiumoso da sposa, sgualcita T-shirt, blue jeans lacerato, occhiale che chiude lo sguardo, specchio dell'anima, rapatura e piercing del labbro o di parti più intime, tracce visibili di pulsioni masochiste e velleità da schiavi, si devono considerare ornamenti di sé. E sono sempre, anche nel caso del tanga, allargamento, estensione e magnificazione dell'idea che si ha del proprio corpo.

Nessun capo di abbigliamento impiccolisce. Sempre esalta mettendo in rilievo paure, manie, ricchezze o povertà presunte. L'inamidatura odorosa di lavanda di un tempo, la sgualcitura di oggi, il ricamo puntiglioso di ieri, ora sostituito dallo strappo (che ha come antenati i giubbini accoltellati percorsi cioè da lacerazioni sgorganti rivoli di seta rossa simboli del sangue), sono emblemi di epoche cruente. E ancora la pelliccia di mille visoni racconta di opulenze presunte, un salto in avanti nella scala sociale. Le sciarpe colorate portate come bandiere o le cravatte annodate in maniera bizzosa o monotona, sono vessilli che fanno la spia di umori espressi o di passioni latenti. Satanico, benpensante o angelico-minimalista, l'abbigliamento è sempre metafora visiva dell'anima. La mise racconta, a insaputa dei padroni, la loro storia e i loro destini.

Lo sposo di villaggio, che indossa per un sol giorno l'abito della festa, svela con il panciotto e il fiore all'occhiello che sa di non meritare, che ha preso in prestito i vestiti di una casta sociale più alta.

Il foulard di seta con bardature, staffe e scene di caccia alla volpe (tra l'altro vietata dalla legge) che narra di presunte dimestichezze con aristocratiche scuderie, tradisce invece quotidiane frequentazioni con broccoli e padelle. L'abito e il gioiello in tutto il mondo raccontano degli umori, ma sono anche carta d'identità. I berberi dell'Atlante usano grandi fibule di fogge diverse che declinano le generalità di appartenenza a questa o quella tribù. Appena scorti nelle sabbie lontane vengono identificati.

I gioielli hanno una funzione profilattica, cornetti o cuori di corallo, manine di Fatima di turchese, immagini sante d'oro inciso, proteggono dalle malattie o dal malocchio.

La camicia con lo stemmino e lo zainetto multicolore sono talismani ricchi di valenze simboliche, amuleti allo stadio più alto della loro evoluzione. L'etichetta della griffe applicata sfacciatamente sul dritto di borse, giacche, pantaloni, è codice fiscale. Rivela il conto in banca, vero o presunto. Usando lettere dell'alfabeto al posto delle cifre: Gucci =1.500.000, il coccodrilletto verde nella polo parla di numeri.

Un dilemma fine secolo l'abito non fa il monaco o L'hâbit fait le moine? Lo fa come dicono e credono i francesi con secolari tradizioni di mode e modi o non lo fa come diciamo noi? Oppure non sarà addirittura che è il monaco che fa l'abito? Che è la personalità di chi porta vestito, la sua gestualità, la sua intelligenza, che trasformano uno straccio inerte in un drappeggio capace di emanare emozioni, in un tessuto cucito e tagliato, capace di far onore al corpo, tempio dell'anima?

Il vestito comunque esercita enormi poteri morali su chi lo indossa. Non ci fa più belli, ci fa sentire più belli (o volendo più brutti se questo piace) o anche più moderni, guizzanti, dinamici. Le scarpe, sempre rigate degli sportivi, sembrano imprimere più velocità al piede. Il pigiama, invece per tradizione a righe verticali, pare proteggere il sonno chiudendo il dormiente in una gabbia immaginaria, riparando il corpo in uno spazio protetto da sbarre.

L'abito è comunque sempre rigido simbolo di appartenenza. I lebbrosi venivano avvolti da tuniche particolari e portavano campanelli per monili. Il re Sole era costretto in fasce di merletto ad ago di fili d'argento e doro. Sete e panni di lana, maniche e cinture definivano inequivocabilmente i mestieri. Le prostitute, simbolicamente, erano raffigurate nei ritratti a olio adorne di perle forate.

L'abito era chiamato in ogni epoca e in ogni paese a dichiarare il sesso di chi l'indossava, costume che si sta diluendo, rivoluzione di fine millennio, sorprendente e unica nella storia dell'abbigliamento. Le deroghe al rituale santuario legato al maschio o alla femmina erano punite anche col rogo. Giovanna d'Arco poté essere condannata a morte dai giudici per un solo crimine accertato: l'indossare reiteratamente i calzoni. I pantaloni, infatti, a partire dal medioevo erano rimasti privilegio assoluto del cosiddetto sesso forte. Eugène Delacroix, pittore e intellettuale d'avanguardia, vedeva i pantaloni per le donne un insulto diretto ai diritti dell'uomo.

Il papa, invece, al di sopra della mischia, continua a portare imperterrito, da millenni, le vesti come le donne. E il clargyman che riconduce i sacerdoti al rango di piccoli uomini, ha dovuto lottare con forza per imporsi sulla tonaca nera con i mille bottoncini. Uno scandalo. I nuovi uomini del 2000 vestiranno abiti di piume bianche per assomigliare più agli angeli? Sarà giusto? Sarà di buon gusto?

L'abito, maschera mutevole e rivelatrice, resterà sempre in bilico tra le oscillazioni implacabili dell'idea del giusto e del gusto.